Le cinque stagioni dell’amore di João Almino. Ettore Finazzi-Agrò, Roma

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Le cinque stagioni dell’amore di João Almino

Ettore Finazzi-Agrò

Le cinque stagioni dell'amore, di João Almino

Possiamo preliminarmente considerare As cinco estações do amor come il romanzo di una generazione, una sorta di Big Chill brasiliano. Il gruppo di personaggi che popolano le sue pagine si autodefiniscono “Gli inutili” e le loro piccole storie si intrecciano con la grande storia senza riuscire ad apportare ad essa se non un carico di frustrazioni e di progetti non realizzati. Appartengono tutti a quella fascia di età che sta tra i 50 e i 60, vivono cioè in quel periodo della vita che sta tra la maturità e la vecchiaia, in quella sorta di intervallo che oscilla tra il ricordo e la speranza di una “quinta stagione”, ossia di un tempo impossibile in cui tutto momentaneamente si ricompone. Non a caso, in questa prospettiva, la protagonista e voce narrante coltiva la teoria dell’istantaneismo, ovvero della possibilità di dare forma alla dispersione e all’entropia dell’esistenza raccogliendo il tutto in una dimensione puntuale e irripetibile. L’adesso, l’ora di cui ha parlato Hegel, lo Jetztzeit su cui, da propsettive diverse, si sono soffermati sia Benjamin che Heidegger, viene, anche da João Almino, pensato come possibile redenzione del tempo dal suo essere tale, dal suo essere, appunto, pura trascorrenza e impuro veicolo delle nostre esistenze. Nell’istante, cioè, in una dimensione che si pone contemporaneamente dentro e fuori del moto temporale, si può forse intravedere il momento decisivo in cui l’insieme si raccoglie nella sua pienezza di senso, riscattando l’individuo dalla inutilità di una vita che è, in apparenza, solo attesa della fine – o, appunto, un ineluttabile e umano essere-per-la morte.

Il romanzo di João Almino ci parla, quindi, di una lotta disperata contro l’inutilità e l’irreversibilità dell’esistere e lo fa non solo da un tempo che non è tempo (l’istante) ma da un luogo che non è immediatamente localizzabile, se non, ancora una volta, sul piano dell’immaginario, accettandolo come ipotesi del suo essere luogo, città, centro. Sto ovviamente riferendomi a Brasília, ambientazione del romanzo che diviene tuttavia spazio agente e motivo ineludibile della narrazione. Di fatto, l’opera di Almino è  fin dall’inizio contrassegnata dalla ricerca di un’identità stabile che consenta di superare le ambiguità e le incertezze di una personalità spesso scissa, plurale, ondivaga. A partire dalla protagonista e voce narrante che si identifica in una duplicità nominale (Ana e Diana, o meglio Di-Ana), per passare alla figura di Norberto che vuol essere disperatamente Berta e che insegue il sogno di impadronirsi dell’identità di Helena, giovane che apparteneva al gruppo degli inutili e che è scomparsa dopo essere passata alla lotta armata.

Brasília, in questo senso, si trasforma da cornice in oggetto rappresentato: dimensione transitoria e intransitabile, che è maschile nella sua sfrontata volontà di possedere e femminile nella sua fragilità e insicurezza, dimensione abitata dall’ostentazione del Potere e circondata dalla miseria e dall’abbandono (basti ricordare come uno dei sentimenti maggiormente evocati dai personaggi sia quello della paura dell’estraneo, del diverso, di colui che può, all’improvviso, aggredirci, in un romanzo, peraltro, in cui la diversità è messa in primo piano, accettata o rifiutata, ma sempre presente). Brasília, dunque, come sogno realizzato e come incubo con cui convivere, perché il vagheggiato distacco, il ritorno alla terra natia (la cittadina di Taimbé, per la protagonista) non si compie mai. Brasília, perciò, città di sradicati che si aggrappano alla loro assenza di radici e di essa fanno l’unica modalità per vivere il presente, l’istante, appunto. Brasília, infine, città artefatta che sopravvive di apparenze e di emblemi, di artifici nei quali si condensa il mito, divenendo crocevia di vite smarrite, quasi a ripetere il disegno di una croce, o meglio, l’ambigua e polisemica traccia vergata da Lúcio Costa da cui la città ha preso origine.

Eppure tale assenza di luogo, questa città atopica, come mostra il romanzo di João Almino,  si fa dimensione ineluttabile del vivere per una generazione che ha visto cadere ad uno ad uno i suoi ideali. Il gesto con cui Ana distrugge i suoi libri e le sue carte, cercando di cancellare la sua memoria personale, diviene, di fatto, base di una vita in palinsesto, tutta da scrivere, come in palinsesto si è costruita la grande capitale del Brasile. Opportunamente, nell’introduzione di Chiuppani alla traduzione italiana, viene ricordato il fulminante ritratto di Brasília che ci ha lasciato Clarice Lispector, la quale vide, nella città in costruzione, un ammasso di future rovine: è come se l’Angelus Novus di Benjamin, l’angelo malinconico del progresso, non fosse costretto a volgere lo sguardo all’indietro, verso il cumulo di detriti che si erge fino cielo, ma avesse invece gli occhi fissi su di un futuro già o fin da sempre popolato di macerie.

La protagonista del romanzo di Almino pare accompagnare, in effetti, questo processo distruttivo e autodistruttivo, strappando o eliminando tutto ciò che si è accumulato nella sua libreria o nei suoi cassetti: una sorta di dannazione della memoria che si conclude con l’incendio del suo appartamento e di tutte le carte che in esso si erano accumulate. Ma il fuoco, nel condannare il passato, sembra d’altronde redimerlo, sembra restituirgli quel senso che, nella caoticità e caducità del quotidiano, pareva fatalmente perduto. E come Brasília, così anche la storia che in essa rapidamente si è accumulata, sembra disporsi in una prospettiva temporale rovesciata, in una sorta di “futuro del passato” che sconta ciò che sarà in ciò che è stato e in esso ritrova un significato eventuale.

Romanzo di pensieri – direi quasi romanzo filosofico o di ricerca di un senso che passa (ovviamente, obbligatoriamente) anche attraverso l’esplorazione dell’istanza corporea e attraverso l’esperienza erotica – romanzo, dunque, Le cinque stagioni dell’amore, che ci aiuta a riflettere sulla impraticabilità delle illusioni e sull’inevitabile naufragio delle utopie, invitandoci, nella cancellazione di un passato vissuto nell’attesa, a ritrovarci in un presente familiare, prossimo, in cui anche l’illusione o l’utopia divengono pezzi di un mosaico che si ricompone nell’attimo. Permettendoci, così, di vivere il nostro tempo, la nostra ora, il nostro adesso come un dono inatteso: perché ciò che ci stupisce e ci salva è solo ciò che inaspettatamente accade in un presente totale e irripetibile, facendoci finalmente essere ciò che potevamo e dovevamo da sempre essere e che riusciamo a realizzare solo in quel momento assoluto e senza residui che è il nostro essere-ora.

Ettore Finazzi-Agrò

Roma, maggio 2012