Beppi Chiuppani
Nel proporre al pubblico italiano una delle migliori opere di João Almino, romanziere tra i maggiori del Brasile d’oggi e mai prima d’ora tradotto in italiano, vorrei partire da un’apparente discrepanza. Non sfondo ma vero personaggio de Le cinque stagioni dell’amore è la città di Brasilia, sorta a metà del secolo scorso nel planalto central come uno straordinario tentativo di dare forma architettonica a un sogno socio-politico di impronta tipicamente modernista. Lo sforzo che in pochissimi anni dette origine alla nuova capitale fu sorretto da un’urgenza utopica eminentemente progressista e razionale, e per questo (eccoci al divario) parrebbe non condividere molto con gli ambienti urbani cui siamo abituati in Italia, palinsesti prodotti da un secolare accrescersi di piazze, chiese, logge e poi certo anche condomini, ferrovie e capannoni. Questa differenza non è casuale, si dirà: tra Brasile e Italia, storicamente uniti non soltanto dall’immigrazione italiana ma ancor prima di questa da secoli di una storia ecclesiastica determinante per i destini di entrambi, la distanza pare oggi farsi per certi versi via via più grande. Se il primo gode infatti di un sempre maggior protagonismo politico e culturale, nonché di una configurazione etnica ad un tempo molteplice e fermamente integrata alla sua identità nazionale, il secondo sappiamo bene non trovarsi oggi in condizioni, diciamo così, particolarmente floride. E tuttavia vorrei qui suggerire che questo romanzo di Almino sembra poter offrire proprio a noi italiani d’oggi una proposta letteraria che supera questo divario, ponendosi come eminentemente adatta a farci riflettere su una serie di fondamentali aspetti comuni che continuano a legare l’avventura della modernità in Brasile a quella che tale sogno socio-politico ha vissuto e sta vivendo nel nostro paese.
In questo centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia ci siamo infatti trovati non tanto a commemorare i successi di una comunità socio-politica ancora relativamente giovane, quanto a valutare con occhio criticamente retrospettivo la tormentata storia di un tentativo non esattamente riuscito: quello di implementare un progetto istituzionale e sociale di modernità (a volte socialista, più spesso liberale) che in Italia è sempre rimasto ben più un’immaginazione che una realtà (proprio fino ai nostri giorni: si pensi alla straordinaria fantasmagoria del modernissimo “popolo delle libertà”). È precisamente sullo svuotarsi della progettualità del moderno che João Almino pone il suo sguardo di romanziere, situando i suoi personaggi, un gruppo di amici che si auto-descrivono come gli “inutili”, tra le ampie superfici degli edifici governativi di Brasilia, tra i suoi immensi viadotti e le sue superquadras (i regolari amplissimi isolati in cui la capitale è suddivisa). A dispetto di queste metafisiche scenografie (una curiosa sorta di rovine del futuro, come le descrisse Clarice Lispector), la vita domestica e privata che vi ha luogo continua ad essere segnata dalla corruzione, da un crimine selvaggio, e da un arduo confronto tra affettività e solitudine.
Una simile contraddizione tra idealità del progetto socio-politico ed effettiva vita sociale la si ritrova fortissima anche nel nostro paese, e in forme sorprendentemente affini a quelle brasiliane. Essa prende da noi l’aspetto di un fondamentale stacco tra una cornice istituzionale dotata di tutti gli orpelli della modernità liberale (rigorosi programmi di governo approvati dalla comunità europea, un’infinita moltitudine di codici e norme, una fittissima rete di organismi istituzionali) e una realtà dei fatti che con la razionalità moderna pare avere poco o nulla da condividere. (Quanto sarebbero adatte, viene anzi da pensare, tutta una serie di espressioni brasiliane per descrivere la socialità italiana: il jeitinho, un intraducibile modo di ingraziarsi i potenti, o il favor, o ancora la malandragem, qualcosa di simile alla nostra “furberia”). Il libro di Almino ci riporta precisamente a questo distacco tra facciata ideologico-istituzionale e vita privata, che un tempo ha fatto descrivere la società italiana niente di meno che come una nazione di papier-mâché – caustica espressione di Barzini che si potrebbe applicare anche alle grandi, vuote scenografie di Brasilia.
È da questo quasi ingestibile, eccessivo e paradossale stacco tra un’idealità vacua e impraticabile e una realtà multiforme e incontrollabile che nascono le difficoltà che ci rendono quasi incapaci di riprendere in mano le nostre sorti. Ed è qui che si situa la straordinaria lezione stilistica ed etica di João Almino, che ha nel romanzo che ora presentiamo uno dei suoi momenti di maggior felicità. Formatosi durante gli ultimi anni della dittatura militare, João Almino completò gli studi verso la fine degli anni Settanta con un lungo soggiorno a Parigi, dove si legò specialmente al gruppo di studiosi di filosofia politica guidato da Claude Lefort, in quegli anni occupato a definire, tramite un acceso dibattito con Sartre, la categoria di intellettuale engagé. Entrato successivamente nel corpo diplomatico brasiliano, Almino non avrebbe mai dimenticato quel periodo di formazione, le cui tracce si possono ritrovare anche in questo romanzo, che rielabora gli echi di quegli anni di impegno politico adeguandoli alla situazione, profondamente diversa, di un Brasile diventato in seguito solidamente democratico – e tuttavia per molti versi molto più disilluso di quanto non fosse stato negli anni della lotta per la sua libertà.
È sulla scorta della carica ideologica degli anni della dittatura che gli “inutili” hanno avviato il loro tentativo di rinnovamento sociale, che si fa però con il passare degli anni sempre meno gridato, più umbratile, più modesto (e tuttavia forse non meno profondo). Il gruppo – straordinariamente variegato dal punto di vista etnico, sessuale ed economico – include persone di colore, un discendente di giapponesi e anche un transessuale, dei quali Almino riesce ad esplorare le inconsuete relazioni affettive. Non si può non riconoscere a suo credito che ha evitato di sottolineare gli aspetti più crudi e scontati di figure come appunto il personaggio di Berta (di cui è raccontato il cambiamento di identità sessuale), concentrandosi sull’amicizia che Norberto/Berta arriva a stringere con Ana, e che appare effettivamente come un unicum sentimentale, essendo il risultato di un complesso amalgama di passata attrazione, comprensione e anche occasionale repulsione. Perché prima di tutto il romanzo di Almino cerca di investigare i tipi di socialità che possiamo oggi immaginare dopo la perdita di ogni idealità socio-politica. Che tipo di comunità è possibile ricominciare a foggiare una volta terminata la spinta propulsiva delle utopie moderne? La storia che Almino ci offre si incarica di ponderare proprio questa questione, in particolare attraverso il personaggio centrale del romanzo, Ana (internamente scissa nel suo doppio Diana, quasi a ricreare quella condizione di fondamentale discrepanza da cui il nostro tempo è segnato) che diventa ne Le cinque stagioni una sorta di esploratrice dell’etica, di eroina della socialità: attraverso i suoi molteplici legami affettivi e amorosi, Ana sdipana una riflessione, esistenziale e critica ad un tempo, che pone costantemente in relazione il polo affettivo (nelle sue molteplici espressioni di amicizia, affetto, amore) e quello sociale. Il rinnovamento sentimentale che riesce a raggiungere al termine della narrazione, appare, da questo punto di vista, come un momento di straordinaria, ancorché tenue e fragile, speranza “post-utopica” – espressione, quest’ultima, già impiegata per interpretare l’arte di Almino.
Lo stile parco ed essenziale del romanzo, a tratti lapidario altre volte malinconicamente asciutto e riservato, è quasi una metafora stilistica dell’atteggiamento di debole apertura che l’opera elabora. Si tratta di uno stile depurato attraverso un’ammirevole cura per il dettaglio linguistico (sulla scorta della lezione di grandi stilisti brasiliani quali Graciliano Ramos) e che pare quasi lanciare una sorta sfida letteraria al sovraccarico di informazioni cui la più ampia sfera mediatica è continuamente soggetta. La dimensione stilistico-letteraria non è infatti in questo volume per niente secondaria a quella etico-politica. La funzione letteraria si situa anzi al centro de Le cinque stagioni dell’amore così come degli altri romanzi di João Almino, che sempre riescono a sviluppare una coscienza su se stessi: la protagonista Ana è non a caso una particolare sorta di scrittrice, occupata a ricercare un modo di esprimersi adeguato alla sua paradossale disillusa speranza, proprio mentre ricerca un amore.
La competente traduzione di Amina di Munno, che si è già cimentata con altri importanti classici brasiliani, fa giustizia alla ricercatezza dell’originale, offrendo ai lettori italiani una nuova preziosa opportunità di dialogo con la letteratura brasiliana – dialogo attraverso il quale potrebbero finire per ritrovare non soltanto l’”altro” ma anche se stessi.
Nel proporre al pubblico italiano una delle migliori opere di João Almino, romanziere tra i maggiori del Brasile d’oggi e mai prima d’ora tradotto in italiano, vorrei partire da un’apparente discrepanza. Non sfondo ma vero personaggio de Le cinque stagioni dell’amore è la città di Brasilia, sorta a metà del secolo scorso nel planalto central come uno straordinario tentativo di dare forma architettonica a un sogno socio-politico di impronta tipicamente modernista. Lo sforzo che in pochissimi anni dette origine alla nuova capitale fu sorretto da un’urgenza utopica eminentemente progressista e razionale, e per questo (eccoci al divario) parrebbe non condividere molto con gli ambienti urbani cui siamo abituati in Italia, palinsesti prodotti da un secolare accrescersi di piazze, chiese, logge e poi certo anche condomini, ferrovie e capannoni. Questa differenza non è casuale, si dirà: tra Brasile e Italia, storicamente uniti non soltanto dall’immigrazione italiana ma ancor prima di questa da secoli di una storia ecclesiastica determinante per i destini di entrambi, la distanza pare oggi farsi per certi versi via via più grande. Se il primo gode infatti di un sempre maggior protagonismo politico e culturale, nonché di una configurazione etnica ad un tempo molteplice e fermamente integrata alla sua identità nazionale, il secondo sappiamo bene non trovarsi oggi in condizioni, diciamo così, particolarmente floride. E tuttavia vorrei qui suggerire che questo romanzo di Almino sembra poter offrire proprio a noi italiani d’oggi una proposta letteraria che supera questo divario, ponendosi come eminentemente adatta a farci riflettere su una serie di fondamentali aspetti comuni che continuano a legare l’avventura della modernità in Brasile a quella che tale sogno socio-politico ha vissuto e sta vivendo nel nostro paese.
In questo centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia ci siamo infatti trovati non tanto a commemorare i successi di una comunità socio-politica ancora relativamente giovane, quanto a valutare con occhio criticamente retrospettivo la tormentata storia di un tentativo non esattamente riuscito: quello di implementare un progetto istituzionale e sociale di modernità (a volte socialista, più spesso liberale) che in Italia è sempre rimasto ben più un’immaginazione che una realtà (proprio fino ai nostri giorni: si pensi alla straordinaria fantasmagoria del modernissimo “popolo delle libertà”). È precisamente sullo svuotarsi della progettualità del moderno che João Almino pone il suo sguardo di romanziere, situando i suoi personaggi, un gruppo di amici che si auto-descrivono come gli “inutili”, tra le ampie superfici degli edifici governativi di Brasilia, tra i suoi immensi viadotti e le sue superquadras (i regolari amplissimi isolati in cui la capitale è suddivisa). A dispetto di queste metafisiche scenografie (una curiosa sorta di rovine del futuro, come le descrisse Clarice Lispector), la vita domestica e privata che vi ha luogo continua ad essere segnata dalla corruzione, da un crimine selvaggio, e da un arduo confronto tra affettività e solitudine.
Una simile contraddizione tra idealità del progetto socio-politico ed effettiva vita sociale la si ritrova fortissima anche nel nostro paese, e in forme sorprendentemente affini a quelle brasiliane. Essa prende da noi l’aspetto di un fondamentale stacco tra una cornice istituzionale dotata di tutti gli orpelli della modernità liberale (rigorosi programmi di governo approvati dalla comunità europea, un’infinita moltitudine di codici e norme, una fittissima rete di organismi istituzionali) e una realtà dei fatti che con la razionalità moderna pare avere poco o nulla da condividere. (Quanto sarebbero adatte, viene anzi da pensare, tutta una serie di espressioni brasiliane per descrivere la socialità italiana: il jeitinho, un intraducibile modo di ingraziarsi i potenti, o il favor, o ancora la malandragem, qualcosa di simile alla nostra “furberia”). Il libro di Almino ci riporta precisamente a questo distacco tra facciata ideologico-istituzionale e vita privata, che un tempo ha fatto descrivere la società italiana niente di meno che come una nazione di papier-mâché – caustica espressione di Barzini che si potrebbe applicare anche alle grandi, vuote scenografie di Brasilia.
È da questo quasi ingestibile, eccessivo e paradossale stacco tra un’idealità vacua e impraticabile e una realtà multiforme e incontrollabile che nascono le difficoltà che ci rendono quasi incapaci di riprendere in mano le nostre sorti. Ed è qui che si situa la straordinaria lezione stilistica ed etica di João Almino, che ha nel romanzo che ora presentiamo uno dei suoi momenti di maggior felicità. Formatosi durante gli ultimi anni della dittatura militare, João Almino completò gli studi verso la fine degli anni Settanta con un lungo soggiorno a Parigi, dove si legò specialmente al gruppo di studiosi di filosofia politica guidato da Claude Lefort, in quegli anni occupato a definire, tramite un acceso dibattito con Sartre, la categoria di intellettuale engagé. Entrato successivamente nel corpo diplomatico brasiliano, Almino non avrebbe mai dimenticato quel periodo di formazione, le cui tracce si possono ritrovare anche in questo romanzo, che rielabora gli echi di quegli anni di impegno politico adeguandoli alla situazione, profondamente diversa, di un Brasile diventato in seguito solidamente democratico – e tuttavia per molti versi molto più disilluso di quanto non fosse stato negli anni della lotta per la sua libertà.
È sulla scorta della carica ideologica degli anni della dittatura che gli “inutili” hanno avviato il loro tentativo di rinnovamento sociale, che si fa però con il passare degli anni sempre meno gridato, più umbratile, più modesto (e tuttavia forse non meno profondo). Il gruppo – straordinariamente variegato dal punto di vista etnico, sessuale ed economico – include persone di colore, un discendente di giapponesi e anche un transessuale, dei quali Almino riesce ad esplorare le inconsuete relazioni affettive. Non si può non riconoscere a suo credito che ha evitato di sottolineare gli aspetti più crudi e scontati di figure come appunto il personaggio di Berta (di cui è raccontato il cambiamento di identità sessuale), concentrandosi sull’amicizia che Norberto/Berta arriva a stringere con Ana, e che appare effettivamente come un unicum sentimentale, essendo il risultato di un complesso amalgama di passata attrazione, comprensione e anche occasionale repulsione. Perché prima di tutto il romanzo di Almino cerca di investigare i tipi di socialità che possiamo oggi immaginare dopo la perdita di ogni idealità socio-politica. Che tipo di comunità è possibile ricominciare a foggiare una volta terminata la spinta propulsiva delle utopie moderne? La storia che Almino ci offre si incarica di ponderare proprio questa questione, in particolare attraverso il personaggio centrale del romanzo, Ana (internamente scissa nel suo doppio Diana, quasi a ricreare quella condizione di fondamentale discrepanza da cui il nostro tempo è segnato) che diventa ne Le cinque stagioni una sorta di esploratrice dell’etica, di eroina della socialità: attraverso i suoi molteplici legami affettivi e amorosi, Ana sdipana una riflessione, esistenziale e critica ad un tempo, che pone costantemente in relazione il polo affettivo (nelle sue molteplici espressioni di amicizia, affetto, amore) e quello sociale. Il rinnovamento sentimentale che riesce a raggiungere al termine della narrazione, appare, da questo punto di vista, come un momento di straordinaria, ancorché tenue e fragile, speranza “post-utopica” – espressione, quest’ultima, già impiegata per interpretare l’arte di Almino.
Lo stile parco ed essenziale del romanzo, a tratti lapidario altre volte malinconicamente asciutto e riservato, è quasi una metafora stilistica dell’atteggiamento di debole apertura che l’opera elabora. Si tratta di uno stile depurato attraverso un’ammirevole cura per il dettaglio linguistico (sulla scorta della lezione di grandi stilisti brasiliani quali Graciliano Ramos) e che pare quasi lanciare una sorta sfida letteraria al sovraccarico di informazioni cui la più ampia sfera mediatica è continuamente soggetta. La dimensione stilistico-letteraria non è infatti in questo volume per niente secondaria a quella etico-politica. La funzione letteraria si situa anzi al centro de Le cinque stagioni dell’amore così come degli altri romanzi di João Almino, che sempre riescono a sviluppare una coscienza su se stessi: la protagonista Ana è non a caso una particolare sorta di scrittrice, occupata a ricercare un modo di esprimersi adeguato alla sua paradossale disillusa speranza, proprio mentre ricerca un amore.
La competente traduzione di Amina di Munno, che si è già cimentata con altri importanti classici brasiliani, fa giustizia alla ricercatezza dell’originale, offrendo ai lettori italiani una nuova preziosa opportunità di dialogo con la letteratura brasiliana – dialogo attraverso il quale potrebbero finire per ritrovare non soltanto l’”altro” ma anche se stessi.
Nel proporre al pubblico italiano una delle migliori opere di João Almino, romanziere tra i maggiori del Brasile d’oggi e mai prima d’ora tradotto in italiano, vorrei partire da un’apparente discrepanza. Non sfondo ma vero personaggio de Le cinque stagioni dell’amore è la città di Brasilia, sorta a metà del secolo scorso nel planalto central come uno straordinario tentativo di dare forma architettonica a un sogno socio-politico di impronta tipicamente modernista. Lo sforzo che in pochissimi anni dette origine alla nuova capitale fu sorretto da un’urgenza utopica eminentemente progressista e razionale, e per questo (eccoci al divario) parrebbe non condividere molto con gli ambienti urbani cui siamo abituati in Italia, palinsesti prodotti da un secolare accrescersi di piazze, chiese, logge e poi certo anche condomini, ferrovie e capannoni. Questa differenza non è casuale, si dirà: tra Brasile e Italia, storicamente uniti non soltanto dall’immigrazione italiana ma ancor prima di questa da secoli di una storia ecclesiastica determinante per i destini di entrambi, la distanza pare oggi farsi per certi versi via via più grande. Se il primo gode infatti di un sempre maggior protagonismo politico e culturale, nonché di una configurazione etnica ad un tempo molteplice e fermamente integrata alla sua identità nazionale, il secondo sappiamo bene non trovarsi oggi in condizioni, diciamo così, particolarmente floride. E tuttavia vorrei qui suggerire che questo romanzo di Almino sembra poter offrire proprio a noi italiani d’oggi una proposta letteraria che supera questo divario, ponendosi come eminentemente adatta a farci riflettere su una serie di fondamentali aspetti comuni che continuano a legare l’avventura della modernità in Brasile a quella che tale sogno socio-politico ha vissuto e sta vivendo nel nostro paese.
In questo centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia ci siamo infatti trovati non tanto a commemorare i successi di una comunità socio-politica ancora relativamente giovane, quanto a valutare con occhio criticamente retrospettivo la tormentata storia di un tentativo non esattamente riuscito: quello di implementare un progetto istituzionale e sociale di modernità (a volte socialista, più spesso liberale) che in Italia è sempre rimasto ben più un’immaginazione che una realtà (proprio fino ai nostri giorni: si pensi alla straordinaria fantasmagoria del modernissimo “popolo delle libertà”). È precisamente sullo svuotarsi della progettualità del moderno che João Almino pone il suo sguardo di romanziere, situando i suoi personaggi, un gruppo di amici che si auto-descrivono come gli “inutili”, tra le ampie superfici degli edifici governativi di Brasilia, tra i suoi immensi viadotti e le sue superquadras (i regolari amplissimi isolati in cui la capitale è suddivisa). A dispetto di queste metafisiche scenografie (una curiosa sorta di rovine del futuro, come le descrisse Clarice Lispector), la vita domestica e privata che vi ha luogo continua ad essere segnata dalla corruzione, da un crimine selvaggio, e da un arduo confronto tra affettività e solitudine.
Una simile contraddizione tra idealità del progetto socio-politico ed effettiva vita sociale la si ritrova fortissima anche nel nostro paese, e in forme sorprendentemente affini a quelle brasiliane. Essa prende da noi l’aspetto di un fondamentale stacco tra una cornice istituzionale dotata di tutti gli orpelli della modernità liberale (rigorosi programmi di governo approvati dalla comunità europea, un’infinita moltitudine di codici e norme, una fittissima rete di organismi istituzionali) e una realtà dei fatti che con la razionalità moderna pare avere poco o nulla da condividere. (Quanto sarebbero adatte, viene anzi da pensare, tutta una serie di espressioni brasiliane per descrivere la socialità italiana: il jeitinho, un intraducibile modo di ingraziarsi i potenti, o il favor, o ancora la malandragem, qualcosa di simile alla nostra “furberia”). Il libro di Almino ci riporta precisamente a questo distacco tra facciata ideologico-istituzionale e vita privata, che un tempo ha fatto descrivere la società italiana niente di meno che come una nazione di papier-mâché – caustica espressione di Barzini che si potrebbe applicare anche alle grandi, vuote scenografie di Brasilia.
È da questo quasi ingestibile, eccessivo e paradossale stacco tra un’idealità vacua e impraticabile e una realtà multiforme e incontrollabile che nascono le difficoltà che ci rendono quasi incapaci di riprendere in mano le nostre sorti. Ed è qui che si situa la straordinaria lezione stilistica ed etica di João Almino, che ha nel romanzo che ora presentiamo uno dei suoi momenti di maggior felicità. Formatosi durante gli ultimi anni della dittatura militare, João Almino completò gli studi verso la fine degli anni Settanta con un lungo soggiorno a Parigi, dove si legò specialmente al gruppo di studiosi di filosofia politica guidato da Claude Lefort, in quegli anni occupato a definire, tramite un acceso dibattito con Sartre, la categoria di intellettuale engagé. Entrato successivamente nel corpo diplomatico brasiliano, Almino non avrebbe mai dimenticato quel periodo di formazione, le cui tracce si possono ritrovare anche in questo romanzo, che rielabora gli echi di quegli anni di impegno politico adeguandoli alla situazione, profondamente diversa, di un Brasile diventato in seguito solidamente democratico – e tuttavia per molti versi molto più disilluso di quanto non fosse stato negli anni della lotta per la sua libertà.
È sulla scorta della carica ideologica degli anni della dittatura che gli “inutili” hanno avviato il loro tentativo di rinnovamento sociale, che si fa però con il passare degli anni sempre meno gridato, più umbratile, più modesto (e tuttavia forse non meno profondo). Il gruppo – straordinariamente variegato dal punto di vista etnico, sessuale ed economico – include persone di colore, un discendente di giapponesi e anche un transessuale, dei quali Almino riesce ad esplorare le inconsuete relazioni affettive. Non si può non riconoscere a suo credito che ha evitato di sottolineare gli aspetti più crudi e scontati di figure come appunto il personaggio di Berta (di cui è raccontato il cambiamento di identità sessuale), concentrandosi sull’amicizia che Norberto/Berta arriva a stringere con Ana, e che appare effettivamente come un unicum sentimentale, essendo il risultato di un complesso amalgama di passata attrazione, comprensione e anche occasionale repulsione. Perché prima di tutto il romanzo di Almino cerca di investigare i tipi di socialità che possiamo oggi immaginare dopo la perdita di ogni idealità socio-politica. Che tipo di comunità è possibile ricominciare a foggiare una volta terminata la spinta propulsiva delle utopie moderne? La storia che Almino ci offre si incarica di ponderare proprio questa questione, in particolare attraverso il personaggio centrale del romanzo, Ana (internamente scissa nel suo doppio Diana, quasi a ricreare quella condizione di fondamentale discrepanza da cui il nostro tempo è segnato) che diventa ne Le cinque stagioni una sorta di esploratrice dell’etica, di eroina della socialità: attraverso i suoi molteplici legami affettivi e amorosi, Ana sdipana una riflessione, esistenziale e critica ad un tempo, che pone costantemente in relazione il polo affettivo (nelle sue molteplici espressioni di amicizia, affetto, amore) e quello sociale. Il rinnovamento sentimentale che riesce a raggiungere al termine della narrazione, appare, da questo punto di vista, come un momento di straordinaria, ancorché tenue e fragile, speranza “post-utopica” – espressione, quest’ultima, già impiegata per interpretare l’arte di Almino.
Lo stile parco ed essenziale del romanzo, a tratti lapidario altre volte malinconicamente asciutto e riservato, è quasi una metafora stilistica dell’atteggiamento di debole apertura che l’opera elabora. Si tratta di uno stile depurato attraverso un’ammirevole cura per il dettaglio linguistico (sulla scorta della lezione di grandi stilisti brasiliani quali Graciliano Ramos) e che pare quasi lanciare una sorta sfida letteraria al sovraccarico di informazioni cui la più ampia sfera mediatica è continuamente soggetta. La dimensione stilistico-letteraria non è infatti in questo volume per niente secondaria a quella etico-politica. La funzione letteraria si situa anzi al centro de Le cinque stagioni dell’amore così come degli altri romanzi di João Almino, che sempre riescono a sviluppare una coscienza su se stessi: la protagonista Ana è non a caso una particolare sorta di scrittrice, occupata a ricercare un modo di esprimersi adeguato alla sua paradossale disillusa speranza, proprio mentre ricerca un amore.
La competente traduzione di Amina di Munno, che si è già cimentata con altri importanti classici brasiliani, fa giustizia alla ricercatezza dell’originale, offrendo ai lettori italiani una nuova preziosa opportunità di dialogo con la letteratura brasiliana – dialogo attraverso il quale potrebbero finire per ritrovare non soltanto l’”altro” ma anche se stessi.
Nel proporre al pubblico italiano una delle migliori opere di João Almino, romanziere tra i maggiori del Brasile d’oggi e mai prima d’ora tradotto in italiano, vorrei partire da un’apparente discrepanza. Non sfondo ma vero personaggio de Le cinque stagioni dell’amore è la città di Brasilia, sorta a metà del secolo scorso nel planalto central come uno straordinario tentativo di dare forma architettonica a un sogno socio-politico di impronta tipicamente modernista. Lo sforzo che in pochissimi anni dette origine alla nuova capitale fu sorretto da un’urgenza utopica eminentemente progressista e razionale, e per questo (eccoci al divario) parrebbe non condividere molto con gli ambienti urbani cui siamo abituati in Italia, palinsesti prodotti da un secolare accrescersi di piazze, chiese, logge e poi certo anche condomini, ferrovie e capannoni. Questa differenza non è casuale, si dirà: tra Brasile e Italia, storicamente uniti non soltanto dall’immigrazione italiana ma ancor prima di questa da secoli di una storia ecclesiastica determinante per i destini di entrambi, la distanza pare oggi farsi per certi versi via via più grande. Se il primo gode infatti di un sempre maggior protagonismo politico e culturale, nonché di una configurazione etnica ad un tempo molteplice e fermamente integrata alla sua identità nazionale, il secondo sappiamo bene non trovarsi oggi in condizioni, diciamo così, particolarmente floride. E tuttavia vorrei qui suggerire che questo romanzo di Almino sembra poter offrire proprio a noi italiani d’oggi una proposta letteraria che supera questo divario, ponendosi come eminentemente adatta a farci riflettere su una serie di fondamentali aspetti comuni che continuano a legare l’avventura della modernità in Brasile a quella che tale sogno socio-politico ha vissuto e sta vivendo nel nostro paese.
In questo centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia ci siamo infatti trovati non tanto a commemorare i successi di una comunità socio-politica ancora relativamente giovane, quanto a valutare con occhio criticamente retrospettivo la tormentata storia di un tentativo non esattamente riuscito: quello di implementare un progetto istituzionale e sociale di modernità (a volte socialista, più spesso liberale) che in Italia è sempre rimasto ben più un’immaginazione che una realtà (proprio fino ai nostri giorni: si pensi alla straordinaria fantasmagoria del modernissimo “popolo delle libertà”). È precisamente sullo svuotarsi della progettualità del moderno che João Almino pone il suo sguardo di romanziere, situando i suoi personaggi, un gruppo di amici che si auto-descrivono come gli “inutili”, tra le ampie superfici degli edifici governativi di Brasilia, tra i suoi immensi viadotti e le sue superquadras (i regolari amplissimi isolati in cui la capitale è suddivisa). A dispetto di queste metafisiche scenografie (una curiosa sorta di rovine del futuro, come le descrisse Clarice Lispector), la vita domestica e privata che vi ha luogo continua ad essere segnata dalla corruzione, da un crimine selvaggio, e da un arduo confronto tra affettività e solitudine.
Una simile contraddizione tra idealità del progetto socio-politico ed effettiva vita sociale la si ritrova fortissima anche nel nostro paese, e in forme sorprendentemente affini a quelle brasiliane. Essa prende da noi l’aspetto di un fondamentale stacco tra una cornice istituzionale dotata di tutti gli orpelli della modernità liberale (rigorosi programmi di governo approvati dalla comunità europea, un’infinita moltitudine di codici e norme, una fittissima rete di organismi istituzionali) e una realtà dei fatti che con la razionalità moderna pare avere poco o nulla da condividere. (Quanto sarebbero adatte, viene anzi da pensare, tutta una serie di espressioni brasiliane per descrivere la socialità italiana: il jeitinho, un intraducibile modo di ingraziarsi i potenti, o il favor, o ancora la malandragem, qualcosa di simile alla nostra “furberia”). Il libro di Almino ci riporta precisamente a questo distacco tra facciata ideologico-istituzionale e vita privata, che un tempo ha fatto descrivere la società italiana niente di meno che come una nazione di papier-mâché – caustica espressione di Barzini che si potrebbe applicare anche alle grandi, vuote scenografie di Brasilia.
È da questo quasi ingestibile, eccessivo e paradossale stacco tra un’idealità vacua e impraticabile e una realtà multiforme e incontrollabile che nascono le difficoltà che ci rendono quasi incapaci di riprendere in mano le nostre sorti. Ed è qui che si situa la straordinaria lezione stilistica ed etica di João Almino, che ha nel romanzo che ora presentiamo uno dei suoi momenti di maggior felicità. Formatosi durante gli ultimi anni della dittatura militare, João Almino completò gli studi verso la fine degli anni Settanta con un lungo soggiorno a Parigi, dove si legò specialmente al gruppo di studiosi di filosofia politica guidato da Claude Lefort, in quegli anni occupato a definire, tramite un acceso dibattito con Sartre, la categoria di intellettuale engagé. Entrato successivamente nel corpo diplomatico brasiliano, Almino non avrebbe mai dimenticato quel periodo di formazione, le cui tracce si possono ritrovare anche in questo romanzo, che rielabora gli echi di quegli anni di impegno politico adeguandoli alla situazione, profondamente diversa, di un Brasile diventato in seguito solidamente democratico – e tuttavia per molti versi molto più disilluso di quanto non fosse stato negli anni della lotta per la sua libertà.
È sulla scorta della carica ideologica degli anni della dittatura che gli “inutili” hanno avviato il loro tentativo di rinnovamento sociale, che si fa però con il passare degli anni sempre meno gridato, più umbratile, più modesto (e tuttavia forse non meno profondo). Il gruppo – straordinariamente variegato dal punto di vista etnico, sessuale ed economico – include persone di colore, un discendente di giapponesi e anche un transessuale, dei quali Almino riesce ad esplorare le inconsuete relazioni affettive. Non si può non riconoscere a suo credito che ha evitato di sottolineare gli aspetti più crudi e scontati di figure come appunto il personaggio di Berta (di cui è raccontato il cambiamento di identità sessuale), concentrandosi sull’amicizia che Norberto/Berta arriva a stringere con Ana, e che appare effettivamente come un unicum sentimentale, essendo il risultato di un complesso amalgama di passata attrazione, comprensione e anche occasionale repulsione. Perché prima di tutto il romanzo di Almino cerca di investigare i tipi di socialità che possiamo oggi immaginare dopo la perdita di ogni idealità socio-politica. Che tipo di comunità è possibile ricominciare a foggiare una volta terminata la spinta propulsiva delle utopie moderne? La storia che Almino ci offre si incarica di ponderare proprio questa questione, in particolare attraverso il personaggio centrale del romanzo, Ana (internamente scissa nel suo doppio Diana, quasi a ricreare quella condizione di fondamentale discrepanza da cui il nostro tempo è segnato) che diventa ne Le cinque stagioni una sorta di esploratrice dell’etica, di eroina della socialità: attraverso i suoi molteplici legami affettivi e amorosi, Ana sdipana una riflessione, esistenziale e critica ad un tempo, che pone costantemente in relazione il polo affettivo (nelle sue molteplici espressioni di amicizia, affetto, amore) e quello sociale. Il rinnovamento sentimentale che riesce a raggiungere al termine della narrazione, appare, da questo punto di vista, come un momento di straordinaria, ancorché tenue e fragile, speranza “post-utopica” – espressione, quest’ultima, già impiegata per interpretare l’arte di Almino.
Lo stile parco ed essenziale del romanzo, a tratti lapidario altre volte malinconicamente asciutto e riservato, è quasi una metafora stilistica dell’atteggiamento di debole apertura che l’opera elabora. Si tratta di uno stile depurato attraverso un’ammirevole cura per il dettaglio linguistico (sulla scorta della lezione di grandi stilisti brasiliani quali Graciliano Ramos) e che pare quasi lanciare una sorta sfida letteraria al sovraccarico di informazioni cui la più ampia sfera mediatica è continuamente soggetta. La dimensione stilistico-letteraria non è infatti in questo volume per niente secondaria a quella etico-politica. La funzione letteraria si situa anzi al centro de Le cinque stagioni dell’amore così come degli altri romanzi di João Almino, che sempre riescono a sviluppare una coscienza su se stessi: la protagonista Ana è non a caso una particolare sorta di scrittrice, occupata a ricercare un modo di esprimersi adeguato alla sua paradossale disillusa speranza, proprio mentre ricerca un amore.
La competente traduzione di Amina di Munno, che si è già cimentata con altri importanti classici brasiliani, fa giustizia alla ricercatezza dell’originale, offrendo ai lettori italiani una nuova preziosa opportunità di dialogo con la letteratura brasiliana – dialogo attraverso il quale potrebbero finire per ritrovare non soltanto l’”altro” ma anche se stessi.